Grazie al centro sociale autogestito “Tricolore”, ai volontari e pedagogisti illuminati che hanno avuto l’idea e la determinazione, agli insegnanti che ci hanno creduto, ecco un progetto che si è tradotto in una bellissima esperienza nelle Scuole superiori di Reggio Emilia. Ho partecipato solo a un paio delle iniziative, laboratori e lezioni tenute da novembre 2010 a luglio 2011, ma ugualmente gli organizzatori mi hanno chiesto di parlarne. Mi fa piacere allora condividere con voi queste riflessioni, attorno ad una progettualità importante, da sostenere ed estendere.
Educare ai sentimenti è una sfida della modernità, sempre più stritolata dalla complessità di un presente che interferisce sulla visione del nostro futuro e a volte la impedisce, soprattutto ai più giovani, oggi privi di basi valoriali solide a cui ancorarsi. E’ davvero possibile, allora, educare ai sentimenti? E lo si può fare a scuola? La risposta, senz’altro positiva, è frutto di un pensiero forte e al tempo stesso di un’esperienza riuscita e densa di prospettive.
Quando mi è stato chiesto di dare un contributo al “ragionamento” intorno alla cultura di genere, partendo dalla relazione e dai sentimenti per trovare la via del cuore e delle menti di tanti ragazzi e ragazze, ho esultato. Sì, perché ho trovato straordinaria l’ambizione di trasmettere e ricevere stimoli di uguaglianza, conoscenza e vissuto al femminile, in un contesto di reciprocità, durante il monte ore autogestito o attraverso la collaborazione di illuminati e sensibili docenti e dirigenti scolastici, il tutto attraverso modalità comunicative alternative, improvvisate, quasi laboratoriali.
La grande intuizione di questa tipologia di progetti, svolti in collaborazione con le scuole del territorio e promossi da un volontariato civico ispirato e consapevole, è quella di cogliere appieno l’esigenza culturale ormai insopprimibile di evidenziare la strisciante ambiguità culturale di una emancipazione femminile solo dichiarata per dovere di stile e imperatività costituzionale, che si scontra –talvolta drammaticamente- con le statistiche di genere e quindi con la concreta posizione della donna nella nostra società.
Lo svantaggio e le difficoltà sperimentate dalle donne sembrano dipendere in modo significativo proprio dal fatto di essere donne e di essere, in quanto tali, associate a un ruolo sociale specifico, più debole per definizione. Tale stereotipo è radicato tuttora profondamente in larghe fasce sociali e tuttora genera discriminazioni, emarginazioni e violenze inaudite. Perciò va combattuto, non solo con una netta condanna e repressione della violenza, ma forse ancor prima attraverso un’azione educativa e culturale capace di incidere nella consapevolezza delle nuove generazioni. Lo stereotipo culturale della donna subalterna è il primo da scardinare per ambire a quel livello alto di civiltà che tutti desideriamo: la convivenza pacifica tra diversità, un multiculturalismo pienamente raggiunto nel riconoscimento reciproco. Rafforzare il processo di adesione da parte della società a una visione almeno “duale” del mondo, dove la diversità sia un valore compatibile con l’uguaglianza, è il primo passo verso una condizione generale di pari dignità e pari diritti fra le persone, qualunque sia la loro etnia, lingua, religione, orientamento sessuale, opinione politica e status sociale. Nulla a che vedere, dunque, con l’omologazione o uniformazione delle differenze, bensì pari condizioni sul piano etico e giuridico.
La parola chiave dal punto di vista culturale è “rispetto”. La cultura del rispetto dell’altro rappresenta il mattone su cui poggiano tutti gli altri della casa comune. E la nostra casa di domani la costruiscono i giovani di oggi, sulla base dei valori che riusciamo a trasmettere loro e di una sensibilità che è cambiata assieme al mondo e che del mondo coglie aspetti inediti. Nel corso della bellissima esperienza di “Educare ai sentimenti” ho toccato con mano l’importanza della Scuola quale veicolo ineludibile della cultura che impregnerà la società di domani. Non fosse altro che per il fatto di “essere comunità” e offrire ai più giovani la rappresentazione sociale e il modello relazionale più significativo della loro vita,la Scuolaha un grande potere e la massima responsabilità nella formazione delle persone. L’approccio empatico del progetto è in assoluto il migliore proprio nell’ottica della comunità, e ha dimostrato di funzionare. In particolare esso ha evidenziato bisogni profondi e li ha fatti incontrare con i valori che volevamo trasmettere; anzi, meglio dire scambiare, perché l’empatia presuppone una reciprocità e una messa in discussione che esclude l’insegnamento a senso unico. Da parte loro i ragazzi e le ragazze che ho avuto modo di incontrare hanno espresso grande desiderio di aprirsi agli altri, condividendo sentimenti ed esperienze; in un ambito fra l’altro già aperto e multiculturale grazie ai cambiamenti indotti dalle tecnologie, dalla convivenza con tanti coetanei stranieri e dalla curiosità, non ancora inquinata da pregiudizi seppur sottilmente condizionata dai media.
In un terreno reso fertile da questo approccio, ecco che temi pesanti e complessi come quelli della violenza alle donne, della prostituzione e della tratta delle schiave contemporanee, perdono qualsiasi connotazione dottrinale o distante e diventano realtà, che ci riguarda e che possiamo affrontare. Non li rifiutiamo più perché capiamo due cose: che il confine tra normale e diverso è solo un velo leggero che si solleva a un colpo di vento; e che possiamo affrontare qualsiasi verità dolorosa a patto di essere insieme. Allora la violenza alle donne smette di essere “quella che capita alle altre” e diventa problema nostro. Smette anche di essere problema femminile e diventa problema della comunità, di uomini e donne. Scopriamo tutti insieme – qui davvero si abbatte anche la distanza fra adulti e giovanissimi – che i comportamenti violenti sono latenti o nascosti fra le mura domestiche, nelle famiglie c.d. insospettabili, negli ambienti di lavoro, ovunque. Scopriamo infine che non è accettabile alcuna forma di connivenza o passività, per la semplice ragione che il silenzio perpetua l’inciviltà dei sentimenti e giustificala sopraffazione. No, dicono all’unisono ragazzi e ragazze, bisogna trovare il modo di fermare tutto ciò. Troviamo l’origine del fenomeno e sconfiggiamolo alla fonte.
Alla domanda, “qual è l’origine, perché tanta violenza nei confronti delle donne?”, si afferma spontaneamente la consapevolezza dello stereotipo culturale di cui parlavo. Un modello di donna che tante battaglie non sono riuscite a relegare al passato, un’immagine femminile rinata dalle sue ceneri in forme, se possibile, ancora più arretrate, a causa della sua riproposizione in grande stile da parte dei media e della pubblicità. Senza timore di fornire risposte superficiali, anche perché suffragate da studi internazionali di comprovata serietà, dove aumenta la distanza tra status reale e immagine mercificata della donna, lì si annida la ragione dell’odio, del possesso, del sopruso. Non sembra esserci altra strada: occorre combattere e sconfiggere le simbologie che riducono la donna ad oggetto, restituire della donna l’immagine che la riflette realmente. Solo riuscendo in questa grande operazione comunicativa e culturale, potremo rendere finalmente eccezionali e annoverabili fra le patologie, tutti i fenomeni di violenza contro le donne.
In uno degli appuntamenti tematici a cui ho preso parte, su “diversità, violenza e prevaricazione di genere”, la narrazione suggestiva ed il protagonismo esercitato dai ragazzi e dalle ragazze ha disvelato dolori e angosce personali sopite e mai superate. Abbiamo condiviso una rinascita possibile. L’esperienza del collettivo che socializza le paure del singolo e le esorcizza, annientandole.
Il genere, dunque, esce dall’astratto per entrare a pieno titolo in una pedagogia del quotidiano che si vuole concreta, incisiva, pervasiva. Nella costruzione di un nuovo umanesimo, che punti al futuro senza dimenticarsi delle lezioni del passato, c’è lo spazio per rifondare l’indipendenza della donna partendo dai giovani, “custodi dell’eternità”.
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